DIARIO DI BORDO DI CHIARA TAVIANI // RESIDENZE DIGITALI

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WHATEVER HAPPENS IN A SCREEN STAYS IN A SCREEN

ABITARE UN’IMMAGINE CON IL GREEN SCREEN
Intervista a Chiara Taviani

Come nasce e da quale urgenza nasce il progetto “Whatever happens in a screen stays in a screen”?

Più che urgenza, direi che il progetto nasce per esigenza. Una produzione, che era stata selezionata dal progetto Aerowaves, è stata interrotta dalla pandemia e ci hanno proposto, come alternativa, di creare un lavoro in digitale. Avrei dovuto realizzare il lavoro con un interprete portoghese, Henrique Furtado Vieri: sarebbe stato comunque un lavoro a distanza, che è diventato ancora più a distanza a causa della pandemia. Perciò ho proposto a Henrique di lavorare con il green screen perché era l’unica cosa che avevo in casa. Abbiamo presentato il lavoro ad Aerowaves – un medio metraggio interamente creato al computer tra Italia e Portogallo – ma l’esperienza non mi sembrava completa. Poi ho letto il bando delle Residenze Digitali e ho deciso di partecipare, pensando maggiormente al tema dell’abitare l’immagine, mentre quello che avevo fatto con Henrique era stato strutturare una visione del lockdown attraverso il film. Tornando alla domanda, diciamo che la vera urgenza era lavorare ed essere attivi creativamente.

L’obiettivo è la realizzazione di un mediometraggio realizzato interamente al pc, con il blue screen: come funziona? 

L’idea era quella di chiedere a un performer di lavorare da casa sua, procurandosi il green screen che io chiamo blue screen perché abbiamo fatto questa scelta cromatica del blu. Ho filmato a distanza i performer che non potevo filmare dal vivo, dopo la fine del lockdown: ho filmato con il mio pc che registra e il loro computer che li filma in diretta. Poi ho cambiato il background, creando un’immagine con all’interno una persona. Ho girato anche dal vivo. Ho invitato a casa i performer, ho fatto diventare il mio salotto un set cinematografico, ho ricoperto tutto di blu e li ho filmati con il computer. La realizzazione è stata piuttosto straniante perché tu da fuori vedi un corpo in mezzo a un colore, e il corpo non vede quello che tocca, va guidato. Il mio obiettivo era realizzare il film con quello che avevo, volevo fare art-house: un lavoro artigianale fatto da casa con i mezzi a disposizione.

Quali le tappe del processo creativo durante i mesi di residenza digitale? 

La prima tappa è stata quella di capire chi avrebbe potuto interpretare il film. Ho cercato danzatori, attori, interpreti che potessero avere un volto e un corpo cinematografico, che mi erano rimasti impressi per la loro performatività a livello cinematografico. Penso a Giselda Ranieri o a Simone Zambelli, ad esempio. Poi c’è stata una fase molto lunga, da maggio a fine giugno/metà luglio, di ricerca di immagini da usare, perché mi ero imposta di usare solo immagini gratuite, libere da copyright, di bassa qualità, e questo l’ho fatto anche per una questione di stile, nel senso che scegliere un fotografo mi avrebbe imposto di seguire solo una linea stilistica. Da lì è iniziato tutto un lavoro di archiviazione. Ho catalogato le immagini per temi e parole chiave (natura, cultura, arte, casa, prodotto, società), le ho archiviate anche in base agli algoritmi che cercavo sul web: io cercavo spazio aperto e un sito mi dava effettivamente l’immagine di uno spazio aperto, un altro, per qualche motivo, magari mi dava una lattina aperta. Ecco, ho trovato interessante seguire le associazioni algoritmiche. Mi sono divertita, perché capisci il potere delle immagini, ci sono immagini che tornano, che si ripropongono.
A luglio ho iniziato a filmare: i primi performer sono stati l’attore Marco Quaglia e l’attrice Ambra Chiarello. Loro li ho filmati da casa mia; poi sono arrivati Simone Zambelli, Giselda Ranieri, Lorenzo De Simone, Natalia Vallebona, che ho filmato ad agosto a Zona K. A settembre ho continuato a filmare e da fine settembre ho iniziato a montare. Anche le musiche che utilizzo sono libere da copyright, ho esplorato anche in ambito musicale.

Da coreografa e danzatrice, qual è il tuo rapporto con il cinema e l’immagine? 

Sono sempre stata influenzata dal cinema, nutre la mia creatività. Mi capita spesso di guardare un film e pensare cosa mi ha lasciato per poi crearne una performance. Per quanto riguarda il movimento mi ha ispirato tanto, ci sono dei registi cinematografici che lavorano con molta precisione utilizzando la scenografia, il colore dell’immagine, e quella precisione è fonte di ispirazione anche per il teatro. Penso a Roy Andersson, ad esempio.

Quale la sfida più grande che avete affrontato in questi mesi con i tuoi collaboratori e i protagonisti di questo lavoro?

Sicuramente la sfida più grande è stata riprendersi dal lockdown e dalla pandemia. Non ci giriamo attorno. È stato un blocco pazzesco perché ha interrotto un flusso difficile da recuperare. C’è stato un impigrimento creativo, fisico. Siamo stati in una bolla, rimettersi a lavorare creativamente è stato difficile.

Perché, data la moltiplicazione delle piattaforme online, uno spettatore dovrebbe vedere il film? Un invito allo spettatore

Essendo un film fatto in stile art house ha una qualità: è un film contemplativo, lento, e questa contemplazione è rara. Tutto quello che guardiamo è veloce, la contemplazione è più vicina alla lettura di un libro. Quindi, vi invito a vederlo, perché apre la possibilità di guardare qualcosa in modo diverso. Ha un tempo a cui non siamo abituati nel guardare lo schermo.

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