SGUARDI – Gli archivi degli altri

Fermata Stratagemmi / UNFOLDING AN ARCHIVE

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Che cos’è davvero un archivio? E quante tipologie ne esistono? Sono solo le carte, le foto, i video, i suoni a comporli? Oppure ne fanno parte anche le più evanescenti memorie ed esperienze che questi oggetti rievocano e ricollocano nella nostra Storia? Di certo, un archivio personale è l’insieme di ricordi che ognuno sceglie di custodire, salvandoli dall’oblio cui sarebbero altrimenti destinati, a volte in maniera irreversibile. Eppure non si è mai soli a creare un archivio. Ciascuno di noi, giovane o anziano, continua a modificare quei faldoni emotivi: aggiunge o toglie ricordi, dai gesti più insignificanti rimasti impressi o presto dimenticati, ai grandi avvenimenti o incontri. E può capitare, un giorno, di riaprire questo archivio e scoprire qualcosa di nuovo tra le pieghe e i segreti di quei pezzi conservati, di cui spesso noi non siamo i soli protagonisti, anche se ne filtriamo la reminiscenza. Allora, com’è possibile portare queste immagini sulla scena? E di chi è la proprietà? Per rispondere a queste domande, prende vita Unfolding an Archive, la prima performance da solista di Zoë Demoustier, che ne firma anche la coreografia, in scena nel mese di marzo presso ZONA K.

Il palco è vuoto e la sala è scura come un cinema prima dell’inizio del film. Allo spegnersi delle luci, Zoë Demoustier – vincitrice del premio per la miglior giovane promessa della città di Lovanio nel 2020 – entra in scena con un bastone e, in piedi dalla platea, guarda la proiezione di un video sullo schermo a fondale. Lo spettacolo, infatti, ha inizio con l’audio di una telefonata tra la performer e suo padre, Daniel Demoustier, un reporter belga che è stato inviato a documentare alcuni dei più importanti eventi mondiali degli ultimi vent’anni, soprattutto nei teatri di guerra. Quella conversazione, dirà Demoustier, è stata registrata senza il consenso del genitore. Il giornalista ricorda i suoi viaggi e i luoghi visitati per lavoro, ammettendo che la sua incolumità non era mai davvero garantita fino in fondo; nel frattempo, vengono proiettate immagini e frammenti video originali, immortalati dall’uomo durante le sue trasferte. Non sono filmati chiari, sono schegge rubate tra uno spostamento in macchina e l’altro, che non è facile ricondurre a un determinato spazio o tempo. Eppure, in tutti traspare la precarietà del momento e, in qualche modo, la percezione di stare vivendo la Storia. Alla fine del video, le luci in sala si riaccendono e Zoë si sposta verso il centro del palco. La voce del padre continua a raccontare: un posto dopo l’altro, una catastrofe naturale, poi una guerra e poi un’altra ancora, un altro cataclisma, e così via. Durante questo elenco ragionato creato dalle parole, dai racconti di chi ha vissuto la Storia con il compito a sua volta di raccontarla, viene disegnata sul pavimento nero sotto gli occhi di chi guarda una mappa. Il bastone che la performer tiene in mano è aperto da un lato e ne esce lentamente una sottile polvere bianca, che sembra non finire mai. Seguendo le voce del padre, Zoë si muove come se stesse dipingendo e sembra restituirci un immaginario mappamondo, in cui tutto si riconduce a un centro. Questo è “unfolding”: scoprire, sfogliare, mettere sul tavolo tutti gli avvenimenti e i fatti di una vita. Alla fine della traccia audio del padre, sotto gli occhi degli spettatori si è formato un infinito intrico di sabbia bianca.

È in questo momento che inizia, invece, il viaggio di Zoë, il suo racconto dell’archivio del padre: un aeroplano è il vero filo rosso che collega tutti i luoghi e gli eventi vissuti dal padre, se non altro perché è il mezzo con cui si spostava. Eccolo, allora, all’inizio della coreografia, il velivolo che porta lo spettatore a rintracciare lacerti di Storia: il genocidio in Ruanda, il terremoto dell’Aquila, una cerimonia alla presenza della Regina Elisabetta II… Ogni episodio ha per Demoustier un suo faro, un suo luogo o un suo momento, che permette di essere riconosciuto e riconoscibile. Ogni evento è corredato da suoni registrati e gesti eseguiti da Zoë, che con pulizia e chiarezza si possono distinguere in maniera netta gli uni dagli altri. L’udito, infatti, più della vista, permette di connetterci alla nostra memoria, facendoci ricordare più facilmente dove eravamo in un preciso momento. Vengono così scalfite anche le nostre immagini personali e le nostre memorie, grazie all’interpretazione della performer che rende archivio il suo stesso corpo. In maniera sempre più evidente, il ritmo e i gesti diventano repentini. Ci troviamo così avvolti in un vortice di movimenti, con le luci che si accendono e spengono, come in un film le cui scene sono rappresentate, e poi riavvolte o rallentate; fino a che di colpo la performer si ferma, proprio nel cuore del suo disegno.

Come un punto di fuga, al centro della mappa c’è Zoë, nella sua stanza. È lei che, ci ricorda, sta sfogliando l’archivio del padre. Questo racconto avviene dunque dal suo punto di vista, quello di una figlia che sa che il padre è tornato a casa solo per rifare le valigie, senza sapere se e quando sarebbe tornato. In camera, Zoë ascoltava Say May Name dei Destiny’s Child, che ora risuona in teatro, mentre le luci si spengono e lei, come quando era una semplice ragazza, balla per non pensare. Con leggerezza ed emotività, Zoë Demoustier permette al pubblico non solo di entrare nell’archivio del padre, ma anche nel proprio, ancor più personale e intimo. In una performance che intreccia Storia e storia, quello che importa è che i ricordi condivisi possano essere sfogliati anche da qualcun altro, sospendendo il tempo che inesorabile scorre e cancella almeno per un po’.  

Giacomo Matelloni

foto TomHerbots©

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