Trilogia dei Miti di Teatro dei Borgia. In ordine: Eracle, Filottete e Medea

di Sathya Nardelli

People / La città dei miti

Ho trascorso il primo pomeriggio di ottobre con il Teatro dei Borgia. Più di tre ore a stretto contatto con gli attori, un’amica che avevo invitato, e altre persone del pubblico che, come noi, avevano preso il biglietto. Ma non posso dire di aver visto uno spettacolo; sarebbe riduttivo e inesatto.

Nessun microfono, tecniche di illuminazione, né alcun tipo di linea che dividesse uno spazio scenico da uno spazio del pubblico. Potrei dire, piuttosto, di aver fatto un viaggio o una gita fuori porta: sono stata su un furgone che ha girato mezza Milano nord, in una sala d’attesa di un ex ospedale psichiatrico e in una mensa.

Nella mensa ho parlato con un uomo che lavora lì, addetto alla distribuzione del cibo. Beh, ha parlato più lui ma aveva molto da raccontare: in un arco di tempo brevissimo si è ritrovato povertà senza nessun tipo di ancora di salvataggio. La sua storia mi ha commossa, perché le vicende che ha vissuto sono qualcosa, purtroppo, di comune e conosciuto, ma soprattutto mi ha angosciata; anche durante il tragitto che avrebbe portato, più tardi, alla seconda tappa della gita, non mi sarei tolta dalla testa quei conti che continuava a fare a mente: affitto, mutuo, spesa, karaoke. Di lui però mi ha colpito la generosità, prima nel raccontarsi e poi, alla fine, nell’offrici un pezzo di pane caldo appena sfornato. Quanto ci mette a cuocere il pane? Non lo so, non ho mai fatto il pane, ma deve metterci esattamente quanto quell’uomo impiega a raccontare la sua storia, perché lo stava infornando quando siamo arrivati e si è presentato. Mangiare quel pezzo di pane insieme a lui e al resto del pubblico mi ha ricordato quanto è importante ascoltare e riascoltare storie che non abbiano né lieto fine né finale tragico, ma che parlano di vite che continuano, nonostante tutto. Forse è questo il finale più eroico: andare avanti. Quest’uomo ha commesso un errore in tutta la sua vita – e non siamo neanche certi che l’abbia commesso davvero – e questo gli è bastato per iniziare a diventare povero e, come ha detto lui, una volta che si comincia, non si finisce più.

La seconda tappa si trovava all’interno dell’ex ospedale psichiatrico ed era un atrio arancione che collegava un lungo corridoio ad una serie di stanze e bagni. C’era un televisore acceso che trasmetteva televendite, tante sedie, un tavolo grande e delle piante finte. Poi c’era un pesce rosso dentro una boccia bellissima ed ho pensato: la voglio anch’io. Entra un signore sulla sessantina, potrebbe essere mio padre. Entra ballando sulla musica che esce da una radiolina che tiene vicino all’orecchio, sul naso ha degli occhiali fuori moda e in mano una grande pianta finta. Penso: dev’essere uno che non sa prendersi cura delle piante – ne avrò conferma più tardi, quando la innaffierà. D’altronde capisco quasi subito che non è in grado di prendersi cura neanche di sé stesso, nonostante si sforzi tantissimo: prende tutte le medicine prescritte e per continuare a fare conversazione parla con il pesce rosso, che è il suo migliore amico. Ma non c’è molto altro che possa fare e i suoi sforzi non bastano, né contro la malattia né contro la solitudine a cui la famiglia l’ha abbandonato. Eppure, se suo figlio venisse più spesso e si fermasse ad ascoltarlo, anche la malattia gli sarebbe più lieve, ma sembra che non interessi a nessuno, neanche al pubblico presente: una ventina di spettatori che, alla sua richiesta di aiutarlo ad andarsene di lì, tacciono.

Solo una donna accetta di prendersi cura del suo pesce rosso, ma non prima che lui l’abbia pregata mettendogli la boccia tra le mani. Un classico momento teatrale in cui l’ipocrisia del pubblico diventa protagonista – ma, in fondo, che potevamo fare? Era solo uno spettacolo. Sì, appunto. Quello che pensa anche il figlio, probabilmente. Lui si guarda intorno come se continuasse a perdersi e i suoi occhi sono sempre rossi e gonfi, sembra che non possa mai più essere felice. E, infatti, ad un certo punto prende più medicine di quante dovrebbe ed io penso di star assistendo al suo suicidio. Non è così, ma lo sento come un presagio. Non c’è salvezza, non ci sono ancore, neanche per quest’uomo.

Infine, di quel gruppo di venti spettatori, io ed altri sei veniamo guidati per l’ultimo capitolo.
Sapevo che c’entrava un camioncino e che per la prima volta saremmo stati all’aperto ma non immaginavo di stare così stretta su un furgone che non si sarebbe fermato per un’ora. Una situazione al limite della claustrofobia a cui si aggiungeva un senso di spaesamento quando non riconoscevo la strada, sensazioni amplificate dal buio delle otto di sera. Poco dopo di noi sale una ragazza. Si definirà “una chiacchierona che dovrebbe imparare a parlare meno” ma non sembra salire per parlare, anzi, è a tutti gli effetti una passeggera come noi e allora si fanno due chiacchiere: da dove venite, cosa vi piace, che confusione fuori, eccetera. Ci racconta di lei, del suo viaggio dalla Romania all’Italia, di tutte le difficoltà che ha comportato, e di tanti abusi e soprusi subìti in viaggio e in Italia. Il racconto è sempre più personale, sempre più intimo e sentito, ma lei non smette mai di sorridere, di cambiare discorso ogni tanto, di guardare fuori e commentare il traffico, l’attualità, le nostre reazioni.

Un’esperienza troppo reale per essere riportata con obiettività, distacco, giudizio. Sembra quasi di svelare i segreti, i dolori più grandi, che qualcuno ha deciso di confidarci in un luogo sicuro in cui noi eravamo solo degli ospiti; e così è per tutta la trilogia dei Borgia: un viaggio nei luoghi di chi è stato abbandonato, ha subito ingiustizie, ha continuato a mettercela tutta ma non ha avuto, e forse non avrà mai, una seconda possibilità.
Un’esperienza così dolorosa che a volte fa chiudere gli occhi per non continuare a vedere.

La città dei miti

Trilogia composta da "Eracle, l’invisibile", "Filottete dimenticato" e "Medea per strada" di Teatro dei Borgia. In queste storie, Medea, Eracle e Filottete sono eroi della contemporaneità, eroi dei margini, di periferia, che ci parlano delle loro tragedie reali: la prostituzione, la caduta in povertà e l’abbandono. La trilogia è un’azione d’arte politica che accompagna gli spettatori nei luoghi dell’emarginazione, illuminando angoli del panorama urbano attraverso il cono di luce del Mito.

Sathya Nardelli: nata nel 1997. Attrice, performer, educatrice teatrale. Originaria di Trento, si diploma a Venezia presso il Teatro Stabile del Veneto e successivamente a Milano come Formatrice teatrale. Fa parte della comunità teatrale Dopolavoro Stadera.

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