SGUARDI – La ricerca di una verità

Fermata Stratagemmi / Quello che non c'è

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Si può imparare a conoscere qualcuno che non c’è più? Ricostruire fatti avvenuti nel passato, per quanto possa risultare, alle volte, un processo laborioso e poco immediato, certo non è impossibile. Basta investigare: chiedere a chi c’era, andare sul posto interessato, confrontare carte, documenti, foto, diari. Ma se si vuole andare oltre ai fatti, se oltre alla verità si vogliono capire le ragioni, le idee, i pensieri che hanno portato a determinate cause, allora come procedere? In Quello che non c’è, Giulia Scotti – autrice e unica performer in scena – cerca di ricostruire attraverso testimonianze, ricordi offuscati e oggetti del passato, la verità attorno alla morte della zia Daniela, venuta a mancare durante l’infanzia della protagonista.

Scotti sceglie di iniziare lo spettacolo presentando una serie di immagini e riflessioni su eventi di attualità politica e fatti personali. La scenografia appare piuttosto spoglia: uno spazio pressocché vuoto, con una sedia abbandonata in un angolo insieme a un telefono di quelli vecchi, con un lungo filo a spirale, e il palco illuminato principalmente dallo schermo posto sullo sfondo. La narrazione scorre veloce, quasi come un flusso di coscienza, e al pubblico viene proposto un susseguirsi di elementi in maniera piuttosto destabilizzante: cos’hanno in comune un crocifisso, il fratello di Scotti morso da un cane durante l’infanzia, La settimana bianca di Emmanuel Carrère e i membri della band turca Grup Yorum (morti in seguito allo sciopero della fame attuato per protestare contro la censura dei loro concerti)? Il dolore legato a un trauma, probabilmente. O il fatto che ogni immagine abbia a che fare con la morte. O ancora: il racconto arrivato tramite altri di questa o quell’altra vicenda. Tutte questioni che confluiscono nella storia personale di Giulia-protagonista.

E proprio come nel romanzo di Carrère, anche in scena la voce narrante si esprime attraverso i ricordi vissuti e interpretati da una bambina, poiché all’epoca del tragico evento familiare la protagonista non aveva nemmeno dieci anni. Tuttavia, non è la morte della zia Daniela in sé a tormentare Giulia – non ha alcun ricordo, era troppo piccola –, quanto piuttosto l’immagine di suo padre accasciato sul lavello del bagno che piange disperatamente, nascondendosi dai figli.

Di Daniela non si parla più in casa, e Giulia smette di fare domande. Quando compie venticinque anni, però, sarà il padre stesso a venire da lei e raccontarle come sono andate le cose, tanti anni prima. Perché far passare così tanto tempo? Perché era bambina? Può darsi. Ma forse anche perché il lutto non è mai stato elaborato completamente. O forse perché c’è dell’altro, un segreto attorno ai fatti accaduti prima della tragedia, un senso di colpa per non essere riuscito a far sì che le cose andassero diversamente.

Ad accompagnare il vortice narrativo, vengono proiettati sullo sfondo fumetti e disegni movimentati da effetti di animazione che seguono il discorso tracciando un percorso più o meno stilizzato. Nel momento in cui si arriva al racconto diretto del padre, una voce maschile registrata si alterna ai fumetti, che completano la testimonianza, arrivando là dove le parole non riescono a uscire. Così, per la prima volta a Giulia viene raccontata la verità, o almeno una parte di essa, dalla prospettiva del padre. L’indagine della protagonista non finisce qui, anzi, inizia proprio da questo momento. Giulia vuole capire perché: torna a casa della zia, frequenta le riunioni degli alcolisti anonimi – Daniela ci è andata per anni – e prova a farsi una sua opinione su quanto avvenuto.

Eccoci tornati alla domanda iniziale, dunque: bastano le testimonianze di qualcuno per arrivare a comprendere chi non c’è più? A questo punto dello spettacolo, però, l’interrogativo diventa un altro: possiamo dire di conoscere veramente qualcuno, oppure assistiamo sempre e solo a una parte della verità; un punto di vista riduttivo o, addirittura, rielaborato e interpretato? E ancora: quanti volti possiamo assumere a seconda del contesto o della persona con la quale ci troviamo? “Uno, nessuno, centomila”, direbbe Pirandello. Anche a noi spettatori viene del resto raccontata una versione della storia, quella di Scotti. Ed è l’autrice stessa ad ammetterlo, in uno slancio di dichiarata autofinzione: “Quasi tutto è vero, alcuni pezzi sono inventati”.

Elena Vismara

foto di Carlo Scotti

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