Sguardi – Un teatro documentario naturale?

Fermata Stratagemmi / Out of the Blue

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Con il suo sguardo lucido e diretto sui fenomeni globali del contemporaneo e il rilievo di una tecnologia al servizio dell’interazione con il pubblico, Out of the Blue è uno di quegli spettacoli che, pur nella sua semplicità compositiva, pone domande urgenti, tanto sul mondo quanto sul teatro. Non a caso viene ospitato dalla stagione di ZONA K, realtà milanese più attenta di altre nel sondare i confini del performativo e nel proporre agli spettatori modi alternativi di interagire con lo spazio e l’evento teatrale.

Cominciamo dal mondo. Lo spettacolo di Silke Huysmans & Hannes Dereere è l’ultimo di un’acclamata trilogia sull’attività estrattiva: dopo Mining Stories (2016), sui danni arrecati da scarichi tossici a un piccolo paese brasiliano (luogo di origine di Silke) e al territorio circostante, e Pleasant Island (2019), dedicato all’isola di Nauru, ex colonia australiana sfruttata per le sue risorse minerarie e poi centro di detenzione di migranti, con Out of the Blue (2022) l’attenzione del duo belga si sposta sulle estrazioni metallurgiche sul fondale dell’Oceano Pacifico, a quattro chilometri dalla superficie del mare. Per quanto strutturale e fondante, la tecnologia che Silke e Hannes utilizzano in scena è semplice: su otto schermi posti su due livelli, comandati live tramite due computer al centro della scena, scorrono immagini, testi e video vari, talvolta accompagnati da musiche. Le ricerche che hanno preceduto la performance sono “esposte” attraverso un continuo passaggio e slittamento di materiali per lo più documentari o d’archivio, cui si aggiungono riprese di quadri di Caspar David Friedrich, réclame animate, poesie di Wallace Stevens. Tutto ruota attorno a tre navi riunite in una zona remota del Pacifico: una della GSR (Global Sea Mineral Resources), del gigante belga dei dragaggi DEME, il cui robot trivella il fondale alla ricerca di minerali; una seconda sulla quale un team di biologi e geologi marini studia le operazioni per conto dell’Autorità internazionale dei Fondali Marini, che ha dato la licenza alla GSR; infine la Rainbow Warrior di Greenpeace, aggiuntasi per monitorare e protestare contro quest’ultima frontiera dell’industria estrattiva.

Intrecciando queste tre prospettive (con i loro contenuti economici, scientifici ed etici), Out of the Blue lascia che gli occhi dello spettatore si muovano da interviste a operatori, tecnici e infiltrati ad approfondimenti sulle estrazioni sui fondali e sull’ancora poco noto habitat degli abissi, da contenuti artistici a interventi politici in ambito belga e internazionale. Gli schermi (e la presenza di scrivania e computer) documentano soprattutto il grande lavoro di ricerca dei due artisti, che non si tirano indietro nel porre interrogativi e che non si accontentano di risposte definitive, mescolando le informazioni e i materiali raccolti senza mai forzarli verso una tesi da dimostrare. È lo spettatore, insomma, che costruirà un proprio percorso e una propria idea su un fenomeno che riguarda, più che il Belgio o l’Europa, il globo – le sue risorse, il suo clima, il suo stato di salute – e i suoi abitanti umani – i loro meccanismi di potere, i loro mercati, i loro bisogni. Posizionandosi fra questi due poli, il lavoro di Husymans e Dereere si preoccupa di documentare non solo (e non tanto) uno dei fenomeni della globalizzazione, quanto le molteplici narrazioni che su di esso si sovrappongono, le loro strategie comunicative, i loro interessi, il loro debito e legame con un immaginario occidentale nutrito di stereotipi e cliché. Una sensibilità globale dello spettatore è così rianimata da un teatro documentario apparentemente freddo: in realtà è proprio la semplicità gestuale con cui si fanno partire video e canzoni a tornare tanto familiare alle nostre vite tecnologiche e interconnesse. Lo scopo di questa presentazione di documenti non consiste nell’eccezionalità di questi ultimi, ma in un’indagine urgente su ciò a cui non possiamo più dare nome di verità e che tuttavia appare accessibile con dei semplici click.

In un suo recente articolo apparso sulla rivista Artforum, Information Overload, Claire Bishop compie una breve ricognizione dei fenomeni artistici legati all’arte documentaria, fornendoci più di una chiava di lettura per Out of the Blue. Analizzando istallazioni più o meno immersive, connettendole ai concetti di ipertesto e di rizoma, a teorie post-strutturaliste e femministe e post-ermeneutiche, Bishop ci mette in guardia dall’eccessivo uso di questo formato solo apparentemente neutrale. E riassume: 

Each phase of research-based art presents a different understanding of what constitutes knowledge and a different approach to spectatorial labor. In the first phase, the artist invites the viewer to piece together parts from the materials provided to form their own historical narrative and to experience in their bodies and minds the complexity of a given (usually counterhegemonic) topic. Knowledge aspires to be new knowledge. In the second phase, the viewer listens to or reads a narrative crafted by the artist. Facts may be partly fictionalized, but there remains a sense of correcting or enhancing history, often through a counter- or micronarrative. The third phase returns the viewer to sifting through information, albeit now in a formal, less interactive mode. Knowledge is the aggregation of preexisting data, and the work accordingly invites meta-reflection on the production of knowledge as truth. In each case, though, despite creating the look or atmosphere of research, artists are reluctant to draw conclusions. Many of these pieces convey a sense of being immersed – even lost – in data.

Questa ricognizione sul documentario ci riporta alla riflessione sul teatro implicita in Out of the Blue, nella trilogia sulle estrazioni e in molti altri spettacoli di ricerca degli ultimi anni. Esponendo in maniera così diretta e immediata i loro materiali, insistendo sulla volontà di non arrivare a conclusioni, immergendoci nel bombardamento di immagini e narrazioni, non mostrandoci altro che le loro schiene e le loro mani al computer, Silke e Hannes paiono avvicinarsi molto ad alcune istanze del performativo e dell’arte documentaria analizzata da Bishop. Sembra in effetti di assistere a un’istallazione interattiva piuttosto che a uno spettacolo, dal momento che non solo non ci sono né una trama né personaggi, ma non compaiono neanche attori in scena, e la regia consiste “soltanto” nel montaggio di materiali esterni e non nel lavoro su gesti, battute e scene. Per prendere dei nomi in ambito italiano, si potrebbe fare un paragone con alcuni lavori di Muta Imago o di OHT [Office for a Human Theatre]. La cifra teatrale, nei parametri con cui siamo abituati a pensarla, si fa davvero sottile in Out of the Blue: pare ridotta alla scelta di cosa mostrare, quando e come presentare un contenuto, come accostarlo ad altri. 

Tutto sembra allora rimandato allo spettatore, alla sua comprensione e alle sue domande etiche – se mai abbia ancora voglia di porsene. E proprio in questo ritorno allo statuto dell’osservatore sta la forza della performance, il suo legame rituale con il qui e ora: scomparsi attori e registi, lo sguardo si muove di schermo in schermo, da un lato rassicurato sulla neutralità e sulla verità delle immagini, dall’altro sempre più cosciente che quella verità si moltiplica e si contraddice. Lo slittamento continuo e la perdita di coordinate sul reale si fa esperienza visiva collettiva, sullo sfondo di problemi e questioni tanto urgenti quanto distanti: l’immediatezza del vedere, la sua connessione al mondo tramite uno schermo, fa tragicamente tutt’uno con una responsabilità insostenibile in quanto fuggevole. Questo cortocircuito fra tempi, spazi e racconti – che è la nostra realtà – si prende il centro della scena, esaltandosi nei tratti documentari di Out of the Blue

Riportando l’azione teatrale alle proprie radici etimologiche, Silke Huysmans & Hannes Dereere si chiedono con noi cosa è un teatro e in cosa consiste la sua funzione politica nel mondo contemporaneo. Senza dare risposte immediate, senza prese di posizioni poco utili, si mettono al servizio non tanto del reale ma della difficoltà di dirlo e vederlo. Invitarci a questo sforzo autocritico e decostruttivo è già un atto politico, profondo quando un fondale oceanico.

Riccardo Corcione

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