SGUARDI – SULLE BARRICATE! La lotta di classe non è morta

Fermata Stratagemmi / Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto

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«La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si presenta come una immensa raccolta di merci e la singola merce appare come sua forma elementare». Così parlò Karl Marx, nel 1864, in apertura della sua monumentale opera Il Capitale. E fece storia, politica, filosofia, rivoluzioni, dibattiti, rivendicazioni, diritti.

Oggi, che ancora si guarda alle tesi e all’utopia di Marx per trovare un’alternativa a un capitalismo che rischia di implodere, si continua a discutere attorno a quel testo, a scandagliarlo per trovare risposte “di sinistra” alle questioni della contemporaneità e alle visioni di futuro. Infatti, anche la compagnia bolognese Kepler-452, durante il periodo delle chiusure forzate, decide di affrontarlo e metterlo in scena. Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, però, raccontano di essersi trovati in difficoltà cercando di entrare in relazione con le parole di Marx, di temere di non trovare il punto. Finché si imbattono in una notizia di cronaca: il 9 luglio 2021 la fabbrica GKN di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, obbliga a una giornata di ferie collettive e in mattinata, a mezzo e-mail, licenzia tutti i suoi 422 dipendenti. Gli operai occupano la fabbrica e inizia una dura lotta (di classe) che vede un’ostinata partecipazione, con le rappresentanze sindacali contro i vertici della multinazionale. Sembra una scena d’altri tempi: il caso diventa mediatico e di rilevanza nazionale; Kepler-452 si unisce alle manifestazioni e in autunno entra in fabbrica, si accampa per un periodo insieme ai lavoratori con cui condivide tempo, spazi, cibo e pensieri.

Nasce così lo spettacolo Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto, che fin dal titolo denuncia di utilizzare Marx solo come pretesto per affrontare questioni socio-economiche tutt’altro che storicizzate.

A ottobre 2023, il lavoro approda finalmente a Milano, ospitato per due date dal Teatro OutOff all’interno della stagione 10 di ZonaK. In scena, insieme a Nicola Borghesi, ci sono proprio loro, le lavoratrici e i lavoratori della fabbrica, che prendono parola sul palco e raccontano la vicenda dalla propria prospettiva. È Dario Salvetti, sindacalista dello stabilimento, il primo a parlare rivolgendosi al pubblico con il megafono in mano, a salire sui cassoni di scena e scandire il tempo della rivolta, seguito dall’operaio Francesco Iorio [la versione originale dello spettacolo prevede anche la presenza dell’operaio Felice Ieraci, assente in queste repliche per motivi personali, la cui storia è assorbita dalle parole di Borghesi, NdR] e dall’addetta alle pulizie Tiziana De Biasio, che solleva anche il dramma del demansionamento e del mobbing vissuto in prima persona.

La drammaturgia risulta diretta ed empatica, ottenendo un approccio efficace e coinvolgente per lo spettatore, di pieno sostegno alla causa operaia. È qui la forza del lavoro: la capacità di entrare in sintonia con chi sta ascoltando, diffondere esiti e sviluppi di una vertenza sindacale collettiva, condividere la forza di un’azione popolare e unitaria, rispecchiarsi come lavoratori e lavoratrici di un tempo complesso, carico di comportamenti anti-sindacali, salari bassi e diritti negati.

Eppure, dicono gli stessi operai, in fin dei conti loro sono quasi fortunati: hanno ottenuto uno spazio pubblico, la loro lotta è valsa a una momentanea reintegrazione e quindi il mantenimento dello stipendio, ad aprire tavoli di discussione (anche se è di qualche settimana fa la notizia di nuovi licenziamenti). Ma ecco il vulnus che rende possibile, ancora, in pieno ventunesimo secolo, la nascita di un nuovo baluardo di resistenza in una fabbrica chiusa in cui si vorrebbe continuare a produrre merce, e quindi ricchezza: se anche il giornalista che racconta l’occupazione è pagato a pezzo, a cottimo, significa che quei diritti e quelle tutele del lavoratore che parevano acquisiti, dopo aver caratterizzato le battaglie operaie dello scorso secolo, oggi sono messi di nuovo in discussione. Se continuiamo ad accettare condizioni di lavoro economicamente insostenibili, che ledono la dignità della persona prima che del lavoratore, non c’è da stupirsi che si possa chiudere una fabbrica, in un venerdì d’estate di ferie obbligate, con una mail.

Borghesi e Baraldi utilizzano il teatro come tribuna, come luogo di denuncia e appropriazione di parola, come spazio di rivendicazione politica, per sollevare questioni di una rinnovata lotta di classe, riuscendo ad ampliare la platea di spettatori, intercettando tematiche che coinvolgono molti, oltre il solito pubblico teatrale. E così assume più importanza il portato politico dell’azione, piuttosto che l’oggetto estetico, insistendo su un piano emotivo di riconoscimento, di condivisione di valori e condizioni.

Chissà che avesse ragione Nanni Moretti con la beffarda chiusura del suo recente Il sol dell’avvenire: di un’Italia che scelse la via dell’utopia di Marx ed Engels e in cui tutti vissero per sempre felici e contenti.

Andrea Malosio

foto Luca Del Pia

Il Capitale. Un libro che ancora non abbiamo letto

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