SGUARDI – Trote e beccacce sui tramonti delle cave
Fermata Stratagemmi / Con l'animale
«It is remarkable that many men will go with eagerness to Walden Pond in the winter to fish for pickerel and yet not seem to care for the landscape. […] They call it going a-fishing, and so indeed it is, though perchance, their natures know better». Tradotto: «È interessante come molti uomini siano impazienti di andare al lago Walden in inverno per pescare il luccio, ma siano del tutto incuranti del paesaggio. […] Lo chiamano andare a pesca, e di fatto si tratta di questo, anche se, forse, la loro natura è più lucida». Il saggista, poeta e filosofo naturalista Henry D. Thoreau commenta così nel suo diario, al 26 gennaio 1853, il sempre crescente afflusso di pescatori al lago di Walden, luogo a lui molto caro, situato nello stato del Massachusetts, rimproverando loro il totale disinteresse per il paesaggio in cui sono immersi, focalizzati come sono sull’attività della pesca. Questa pratica diventava così, ai suoi occhi, uno sport che, pur sottendendo una lucida conoscenza del mondo naturale, distrae chi lo pratica dalla percezione della sua esistenza spaziale. Thoreau introduce però un elemento oppositivo: quel their natures sfida l’alienazione fisica e mentale dei pescatori e li richiama alla presenza e alla percezione della condivisione dei luoghi con le esistenze altre.
Proprio attorno a quest’ultimo punto si sviluppa lo spettacolo Con l’animale, frutto di una collaborazione tra due artisti svizzeri: lo scenografo Massimo Furlan e la drammaturga Claire De Ribaupierre; un’esperienza visiva e sensoriale acuita dalla messa in scena site specific presso la Cava Aurora, all’interno del Parco delle Cave nel quartiere milanese di Baggio.
Sulle sponde di un piccolo lago, con la luce del tramonto che ancora stria il cielo di tinte aranciate, cinque uomini siedono a una tavola imbandita. Accanto a loro, sul terreno cosparso di foglie autunnali, bolle una grande pentola in acciaio che gli attori occasionalmente controllano, rimescolandone il contenuto. Il profumo del cibo permea l’aria, ibridandosi con l’odore della terra umida e trasportando gli spettatori in un altrove spaziale, lontano dal rumore del traffico urbano. Questo quadro rurale fa appello alla semplicità di una vita apparentemente dimenticata, ma di cui i personaggi in scena, così come gli attori stessi, sono ancora testimoni. Gli uomini prendono voce a turno e raccontano le proprie esperienze di caccia e pesca; storie modeste ed essenziali, narrate con il nodo dell’agitazione alla gola, che dona agli interpreti credibilità e provoca la fascinazione degli ascoltatori.
«Non avevo mai visto il tramonto del sole dal mare» dice uno degli attori. In queste vicende di contatto immersivo con la natura, che trasportano il pubblico da Milano a Spino d’Adda, dal Veneto a Piacenza, si attua infatti la riscoperta di un territorio troppo spesso ignorato o poco conosciuto proprio da chi lo abita. Ogni storia ha un protagonista animale: la trota salmonata catturata con fatica dopo ore di paziente attesa; la beccaccia sfuggente che plana tra gli alberi di un bosco piacentino; il minaccioso pesce siluro che schiva la cattura ma la cui visione lascia un ricordo vivido nell’immaginario di uno degli attori. E insieme a loro, anche il paesaggio prende vita, come in uno dei racconti in cui un interprete, ancora ragazzino, scappa di casa alle quattro del mattino per andare a pesca sul lago Maggiore, ancora velato dalle tenebre della notte.
Queste avventure si fanno così fonte di una conoscenza perduta, perché insegnano ai protagonisti a capire la natura in modo più intimo, a regolarsi in base ai suoi ritmi, ad ascoltare la sua voce e spegnere la propria. In questo risiederebbe secondo loro il grande valore di sport come la caccia e la pesca, talvolta anche stigmatizzate per la violenza intrinseca da parte di movimenti animalisti ed ecologisti. Non è infatti nell’atto pratico della cattura che si esaurisce la forza di queste attività, bensì in quello della scoperta di modi e configurazioni di vita diverse. Così, le parole di Thoreau trovano un’eco in quelle più semplici e meno evocative, ma decisamente più concrete e carnali, dei personaggi dello spettacolo, che vivono caccia e pesca non solo come divertissement, ma come modi alternativi di vivere e vedere il mondo e di interagire con esso. La “natura” di cui parla lo scrittore statunitense trova espressione nei corpi dei personaggi e trasforma il piacevole svago dello sport in una presa di consapevolezza che reinserisce l’individuo nel contesto in cui si trova, rinnovando la sua abilità percettiva. «Io sono me e l’ambiente e se non preservo l’ambiente, non preservo me stesso» dice uno degli attori alla fine dello spettacolo, ponendo proprio in chiusura della performance la delicata questione della preservazione degli ecosistemi, la cui distruzione diventa tanto più drammatica per chi ne fa esperienza dall’interno. Così, la scarsità del pesce, l’assenza degli uccelli e degli insetti e gli effetti distruttivi dell’urbanizzazione pesano sulle storie bucoliche raccontate, proiettando l’ombra dell’artificiale sull’idillio della natura e dell’ormai inarrestabile cambiamento climatico.
Claudio Favazza
foto di Luca Del Pia